Sulla rinuncia alla quota di comproprietà

Aprile 2023

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 10666 del 22 aprile 2021, pronunciata dalla Sezione Tributaria, fa emergere, nei suoi passaggi contraddittori e criptici, uno stato di relativa confusione sulla lettura e l’interpretazione della natura, della struttura e degli effetti di una  figura negoziale che, per le ragioni che si diranno, è di notevole rilievo nella pratica notarile e che, pertanto, meriterebbe di essere approfondita e meglio inquadrata dalla letteratura e dalla giurisprudenza allo scopo di offrire agli operatori (notai in particolare) una cornice di riferimento in cui muoversi con maggiore agio e sicurezza.

Nella vicenda giudiziaria conclusa col provvedimento citato, i contribuenti impugnano innanzi al supremo collegio la sentenza 22/2017 della CTR del Veneto, con la quale, in riforma della sentenza della CTP di Padova (che accoglieva la prospettazione dei contribuenti), viene confermato un avviso di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate che liquida le imposte di Registro ipotecaria e catastale (negando, peraltro, le agevolazioni “prima casa”) dipendenti da un atto col quale quattro comproprietari, con atto di rinuncia abdicativa, dismettevano dal loro patrimonio le quote di comproprietà di un immobile che, per l’effetto, diveniva di proprietà esclusiva del quinto comproprietario.

Secondo la liquidazione delle imposte proposta dal notaio rogante, condivisa nel primo grado del giudizio dalla CTP di Padova (ad avviso di chi scrive, come si dirà, correttamente) l’atto veniva tassato come se fosse (pur non essendo in senso stretto e tecnico) una donazione e, quindi, in esenzione dall’imposta di registro e col pagamento delle sole imposte ipotecaria e catastale, ridotte, peraltro, alla misura fissa in forza della richiesta, da parte del comproprietario a vantaggio del quale profittava la rinunzia degli altri, delle agevolazioni per l’acquisto della prima casa.

La Commissione Tributaria Regionale del Veneto e, con la sentenza che si commenta, la Corte di Cassazione, nei successivi gradi del giudizio condividono, invece, l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate che tratta l’operazione come se fosse un atto a titolo oneroso che, inoltre, non può fruire dell’agevolazione prima casa e liquidano pertanto l’imposta di registro in misura piena (oggi sarebbe il 9 per cento) oltre alle imposte ipotecaria e catastale nella misura ordinaria (oggi sarebbero 50 euro per ciascuna imposta).

La tessitura argomentativa della sentenza degli Ermellini appare, invero, assai debole.

Il collegio muove da una poco chiara e tecnicamente imprecisa, per non dire apodittica, constatazione della presenza, nella fattispecie, di un fenomeno traslativo a titolo derivativo. Si legge nella motivazione del provvedimento che: 

    “l’acquisto della proprietà è un effetto legale della rinuncia da parte del comproprietario ed ha carattere derivativo in quanto presuppone la precedente titolarità del diritto in capo al rinunciante. Il nuovo proprietario, invero, acquista il diritto se ed in quanto esso spettasse al rinunciante. Nel caso che ci occupa T.L., T.M., T.A e T.O dapprima sono divenuti proprietari dell’immobile per successione ereditaria e, successivamente hanno rinunciato alla proprietà determinandosi, per effetto di tale rinuncia, l’espansione del diritto di proprietà in capo al comproprietario T.E. Per effetto della rinuncia al diritto di proprietà prevista dall’art. 1104 c.c., si è dunque  verificato l’effetto traslativo del diritto già acquisito in capo ai rinuncianti.”

Appaiono ictu oculi, dal testo appena riportato evidenti contraddizioni. Da un lato sono evocate le categorie dell’ “effetto legale” e della “automatica espansione” del diritto che nulla hanno a che vedere col fenomeno “traslativo-derivativo” dall’altro si afferma, con un ossimoro, il carattere derivativo del fenomeno e ciò per il solo fatto che il bene apparteneva prima ad un soggetto per poi essere acquisito da altro soggetto.

Una più attenta ed accurata analisi della struttura della fattispecie in esame svelerà meglio il carattere superficiale ed approssimativo del provvedimento che commentiamo.

Come pure rilevato dal provvedimento del supremo collegio (salvo poi affermare il contrario) la rinuncia alla comproprietà determina, in virtù di un effetto legale e di un automatismo, l’acquisto della quota da parte degli altri comproprietari.

Sul piano strutturale quel che avviene è che la dismissione, da parte del rinunziante, della quota del bene crea una sorta di “vuoto” nella titolarità del bene medesimo.

Poiché l’ordinamento non “tollera” questo “vuoto” la legge (art. 1104 c.c.) dispone, si badi, in modo indipendente dalla volontà delle parti, un’espansione delle quote degli altri comproprietari che diverranno automaticamente titolari della quota “vacante” in proporzione alle quote loro spettanti prima della rinunzia.

Tale effetto è indipendente dalla volontà delle parti ed è, appunto, un effetto legale ed automatico che non sembra si possa agevolmente ricondurre ad un fenomeno traslativo-derivativo che presuppone, invece, un “movimento” diretto (e voluto dalle parti) da un soggetto ad un altro.

Nella rinunzia alla comproprietà, invece, il “movimento” della (quota della) res, per rimanere nell’immagine, è duplice. Dapprima essa viene, per così dire, “abbandonata” e solo in conseguenza di questo “abbandono” si innesca un effetto legale, automatico ed indipendente dalla volontà delle parti di acquisizione del bene al patrimonio degli altri comproprietari. I due momenti sono logicamente indipendenti e non interconnessi come avviene nei fenomeni traslativo-derivativi.

Tanto ciò è vero che la rinunzia alla comproprietà è atto che può svolgersi anche solo unilateralmente e senza bisogno dell’accettazione da parte degli altri comproprietari. Il comproprietario che rinunzia alla quota può, senza bisogno della collaborazione degli altri comproprietari stipulare un atto unilaterale puramente abdicativo dove la quota viene dismessa senza essere indirizzata, nella volontà dell’autore dell’atto, a chicchessia ma semplicemente “abbandonata”

Gli altri comproprietari, che potrebbero restare anche ignari della vicenda, automaticamente acquisiranno il bene in maggior quota.

Ulteriore conferma dell’assenza di un carattere traslativo-derivativo nella fattispecie la si ritrova nella circostanza che la rinunzia alla quota non può giammai essere “diretta” a vantaggio di uno soltanto o di alcuni degli altri comproprietari. Se il comproprietario volesse trasferire (ora si!) Il bene ad uno solo o ad alcuni soltanto degli altri comproprietari non potrebbe rinunziare alla quota ma dovrebbe metter capo allo schema della donazione o della vendita, questi si fenomeni traslativo derivativi in cui un dante causa vuole cedere ad uno o più aventi causa un quota indivisa.

Nella rinunzia alla quota, invece, come si è detto, l’autore dell’atto, mosso da volontà meramente abdicativa (una causa diversa da donazione o vendita) si limita ad espellere dal suo patrimonio il bene. È qui che, per così dire, si ferma l’effetto del negozio che, quindi, di per sé, non è idoneo a determinare alcun trasferimento. Solo in una fase logicamente successiva e strutturalmente indipendente si viene a determinare l’effetto acquisitivo voluto dalla legge che prescrive l’espansione delle quote. Non sono le parti a volere un trasferimento e non è il negozio a determinarlo. Il negozio determina il mero abbandono della quota e la legge ne determina l’acquisto.

Mette conto ora soffermarsi brevemente sulla causa dell’atto. 

Da quanto sin qui esposto risulta con una certa evidenza che il carattere causale del negozio abdicativo ha connotati tendenzialmente autonomi dall’area delle liberalità e delle donazioni. Esso non è sorretto dalla volontà dell’autore del negozio di arricchire altro soggetto ma da mera intenzione dismissiva. 

L’implicazione civilistica è notevolissima.

L’arricchimento degli altri comproprietari sfugge infatti alle logiche delle liberalità ed il loro acquisto, effetto della legge e non di un altrui attribuzione liberale, avrà carattere di stabilità e non sarà esposto al fastidioso effetto delle azioni di riduzione (ferma beninteso la possibilità di fornire la prova che, al di là del nomen  iuris, il negozio dissimulava una liberalità).

Per questa ragione la rinunzia alla comproprietà si palesa come un preziosissimo strumento operativo. Nella prassi notarile, in molti casi in cui occorre procedere ad una cessione gratuita, premessa un’adeguata indagine sull’intenzione delle parti, il ricorso alla rinunzia alla quota di comproprietà consente di procedere ad una cessione stabile e sottratta alle fastidiose conseguenze che potrebbe determinare la donazione in termini di futura circolazione del bene.

Anche per quest’ultima ragione, assumendo una prospettiva giuseconomica, andrebbero preferite, in sede ermeneutica, tutte le letture dell’istituto che ne agevolano l’uso. Da questo punto di vista, letture della fiscalità dell’operazione che finiscono per punirlo e disincentivarne l’uso, come quella che emerge dalla sentenza di Cassazione che queste note commentano (e criticano), andrebbero messe da parte per agevolare forme di tassazione di maggior favore che stimolino l’uso della rinunzia in alternativa alla donazione.

Venendo ai profili più strettamente tributari v’è peraltro da rimarcare che non sembra arduo  ricostruire il sistema e leggerlo nel senso dell’assoggettamento della rinunzia alle quote di comproprietà al trattamento tributario proprio delle donazioni.

Il Testo unico delle Imposte sulle Successioni e le Donazioni (c.d. T.U.S.) portato dal d.lgs 346/1990, nel suo primo articolo, al secondo comma, recita chiaramente che oggetto dell’imposta da esso regolata sono le rinunzie a diritti reali.

Tanto basterebbe a inquadrare la fattispecie nell’ambito del T.U.S.  (che si pone in relazione al testo unico sull’imposta di registro come norma a carattere speciale)

Ma a voler chiarire ulteriormente si può osservare quanto segue.

Anche l’art. 1 della tariffa allegata alla legge di registro menziona la rinuncia ai diritti quale oggetto dell’imposta di registro ma il contesto in cui ciò avviene è quello della disciplina tributaria degli atti a titolo oneroso. Si legge infatti: “Atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di beni immobili in genere ed atti traslativi o costitutivi, compresi la rinuncia pura e semplice agli stessi (…)” 

Orbene, la rinunzia alla quota di comproprietà non è qualificabile, lo si è visto, come una donazione né come una liberalità indiretta ma è evidente che si tratta di un atto (unilaterale, non traslativo e non derivativo) a carattere essenzialmente gratuito dal momento che, tendenzialmente chi rinunzia alla quota non percepisce alcun compenso (benché sia ipotizzabile una qualche forma di indiretta remunerazione della rinunzia che, per esempio nel quadro di una transazione, non sarebbe comunque sinallagmaticamente collegata alla rinunzia dal momento che una rinunzia verso corrispettivo sarebbe a ben vedere qualificabile come vendita, permuta, datio in solutum o altra cessione a causa onerosa).

Se dunque occorre inquadrare la rinunzia di che trattasi in una categoria propria del sistema delle imposte indirette essa appare come atto gratuito non liberale.

Ebbene tali categorie di atti, pur non essendo liberalità vanno senz’altro inquadrate nell’ambito del Testo unico delle Imposte sulle Successioni e le Donazioni (c.d. T.U.S.)

L’ Art. 1 recita che “L’imposta sulle successioni e donazioni si applica ai trasferimenti di beni e diritti per successione a causa di morte ed ai trasferimenti di beni e diritti per donazione o altra liberalità tra vivi. Si considerano trasferimenti anche (…) la rinunzia a diritti reali.” 

È interessante sottolineare che la rinunzia a diritti reali secondo la norma si considera trasferimento. Il legislatore sembra qui voler rimarcare che la rinunzia non è trasferimento in senso stretto ma si considera tale ai fini fiscali. 

La norma, come si vede, non fa esplicito riferimento alle cessioni gratuite a carattere non liberale ma il disposto normativo citato viene completato, secondo lettura condivisa anche dalla stessa agenzia delle entrate con quanto previsto dall’art. 2 come 47 del DL 262 del 2006 che dispone “è istituita l’imposta sulle successioni e donazioni sui trasferimenti di beni e diritti per causa di morte, per donazione o a titolo gratuito …”

Tale dato è chiaro ed è espressamente condiviso e riaffermato dalla stessa Agenzia delle Entrate in una recente risposta ad interpello (n. 347/2022) .

Se non bastasse il dato letterale del secondo comma dell’art. 1 T.U.S. quindi anche la lettura sistematica conforta l’interprete nell’inquadramento della rinunzia abdicativa nell’ambito fiscale del T.U.S.

È da respingere fermamente pertanto e da rimeditare l’arresto giurisprudenziale portato dalla Sentenza 10666 del 22 aprile 2021 poiché fondato su una lettura inesatta sia della natura giuridica della rinunzia alla quota di comproprietà che del suo corretto trattamento tributario.

Una volta inquadrata la fattispecie della rinuncia alla quota di comproprietà nell’area degli atti gratuiti disciplinati dal T.U.S. sarà più agevole occuparsi di altro aspetto della sentenza che si commenta e sul quale gli ermellini, ad avviso di chi scrive, esprimono un’altra valutazione non condivisibile. Si tratta dell’affermazione, anch’essa motivata con scarso approfondimento, della non spettanza delle agevolazioni prima casa al soggetto che si avvantaggia dell’altrui rinunzia alla comproprietà.

La sentenza liquida frettolosamente la vicenda affermando:

“a tacer del fatto che le norme sulle agevolazioni sono di stretta interpretazione, dirimente è il fatto che la rinuncia abdicativa di che trattasi non costituisce donazione indiretta poiché dall’atto a rogito notaio N. di Padova, rep. 1267 e racc. 872, del 30 aprile 2013 si evince che le parti hanno dichiarato che la rinuncia avveniva a titolo gratuito ma senza spirito di liberalità, laddove, invece, lo spirito di liberalità è connaturato alla donazione, anche indiretta”

Gli argomenti utilizzati sono essenzialmente due ed entrambi non convincenti.

Il primo attiene al carattere speciale delle norme sulle agevolazioni e sulla conseguente insuscettibilità di estensione analogica delle stesse. Ma non sembra, invero che vi sia alcuna necessità di ricorrere all’analogia per applicare al caso che ci occupa la norma agevolativa.

È noto, infatti, che l’art 69 comma 3 della Legge 342 del 2000 ha esteso l’agevolazione alle “successioni e donazioni” per le quali ricorrono (anche in capo ad uno soltanto di una pluralità di donatari o di successori mortis causa) i requisiti per la fruizione dell’agevolazione prima casa con riduzione alla misura fissa delle imposte ipotecaria e catastale. Orbene non sembra ragionevolmente dubitabile che la norma, nel fare riferimento alle “successioni e donazioni” ha inteso richiamare l’intera area regolata dal T.U.S come definita nell’art. 1 rubricato “oggetto dell’imposta”. Ebbene come si è argomentato più sopra tale oggetto deve intendersi esteso  dall’ art. 2 come 47 del DL 262 del 2006 anche agli gratuiti in senso ampio benché privi di causa liberale. Se così è (ed è la più lineare  e razionale lettura del sistema) l’applicazione dell’agevolazione prima casa al caso che ci occupa sarebbe diretta e non mediata da un procedimento analogico.

Quanto testé osservato smonta anche l’altro argomento utilizzato dalla sentenza che esaminiamo.

È la legge che prescrive l’applicazione delle regole tributarie delle liberalità anche agli atti gratuiti non liberali e l’interpretazione è fatta propria dall’Agenzia delle Entrate nella citata risposta ad interpello 347 del 2022 in cui l’Agenzia afferma l’applicabilita’ dell’imposta all’atto (con ogni evidenza non liberale) con cui il mandatario senza rappresentanza ritrasferisce quanto acquistato per conto del mandante al mandante medesimo.

Sono il notaio Dario Ricolo, socio fondatore di NF Notai, e opero presso la sede di Monreale e la sede di Piazza Francesco Crispi 1 di Palermo, due delle nostre 8 sedi siciliane.

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